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Published on 2018-09-11 08:01:57 | words: 4977



Questo articolo è una ideale continuazione di alcuni articoli in italiano ed in inglese che ho pubblicato tra inizio luglio ed inizio settembre 2018:
Per il resto, potete guardare sulla "classifica degli articoli più letti".

Se non avete tempo o voglia di legger articoli, potete anche dare uno sguardo (è gratis online, anche se su carta può esser acquistato su Amazon) al libretto "Just another book on innovation (in Italy) (vol. 4 of "Connecting the Dots") ISBN 978-1723163937", che riassume molti dei temi discussi in questo sito, e condivide anche materiale di approfondimento di cui non sono l'autore.

Di cosa tratta quest'articolo? della evoluzione possibile di Torino, da company town a centro di competenze non solo in ambito industriale.

Nota introduttiva (che in realtà serve per illustrare alcuni punti dell'articolo): sono nato a Torino. Abito di nuovo a Torino dal 2015, ma non sono torinese (nel lessico locale quelli come me son chiamati "napuli", se non ricordo male), ed ho vissuto e lavorato e studiato in diversi paesi all'estero, e lavorato sia per aziende italiane, sia per multinazionali.

A Torino, da quando ero al liceo (inizio anni Ottanta), svolsi attività politica attiva solo fino a quando indossai la divisa (scelta politica-personale che allora diversi trovarono bislacca, ma francamente ritengo "sempreverde").

Fui fortunato abbastanza da avere a 17-18 anni l'opportunità di collaborare e scambiare idee con i gruppi giovanili di tutti i partiti di quello che allora si chiamava "l'arco costituzione" (dal PLI al PCI).

Le ragioni della mia scelta di non far più attività (p.es. smisi di partecipare a manifestazioni o eventi)?

Scherzando, potrei dire che, secondo i dettami NATO (o Von Clausewitz: "Der Krieg ist eine blosse Fortsetzung der Politik mit anderen Mitteln"), il primato della politica su qualunque elemento del mix attraverso il quale lo Stato si proietta nelle relazioni con terzi è indiscusso.

Che piaccia o non piaccia- le linee di indirizzo devono esser politiche, mentre chi è nella struttura è ovvio che abbia interesse a che la struttura rimanga efficace (sull'efficienza è un discorso a parte), qualunque sia la parte politica che fornisce le linee di indirizzo.

Come scritto in precedenza, resto dell'idea che quest'ultimo sia un elemento di strutturale debolezza del nostro sistema: da noi, non cambiano solo i ruoli di indirizzo ad ogni alternarsi di compagine governativa, ma ci sono migrazioni di massa, sia di chi è già in struttura, sia tramite la gestione del normale avvicendamento dovuto a pensioni e rimozioni, in pratica con le solite "infornate".

Perché "debolezza strutturale"? Perché per me, chi è in struttura, dovrebbe esser della struttura, non di una banda (che poi si cambi casacca è fisiologico effetto indotto di tale debolezza- le promozioni ai cambi di governo non sono inusuali).

Corollario: spesso, da noi le strutture si moltiplicano- non sapendo a chi rispondono, o quali interessi rappresentino, si tende a riorganizzare e creare nuove posizioni "di fiducia", piuttosto che rischiare di avere "franchi tiratori" dall'interno della propria struttura (e non è una pulsione paranoica italica, ma la realtà dei fatti, che la tua struttura possa "silurarti"- che si parli di tunnel del Gran Sasso o di esodati).

Quindi, anche a 20 anni non mi sentivo di continuare ad esser "di parte" se per un anno prestavo servizio "super partes".

Cosa vuol dire esser "super partes" (o "bipartisan", come ci siamo abituati a dire anni dopo i referendum Segni)?

Ognuno ha la sua da dire, al riguardo- a me piace pensare al concetto di "civil servant", reso solo parzialmente dalla traduzione in "funzionario pubblico".

Paradossalmente, la scelta di esser "super partes" me la portai poi nel mondo del lavoro- e non mi pento della scelta: ho lavorato con persone competenti di tutte le parti politiche, anche chi, ben prima della Lega di Bossi, parlava di secessione dall'Italia.

In realtà, dopo la Seconda Guerra Mondiale, un elemento discusso da teorici delle relazioni geopolitiche nella prima parte del XX secolo, ed affermato anche da alcuni capitani d'impresa, è quale debbano essere i ruoli pubblici, privati, e politici in una società complessa.

P.es. l'ex CEO di General Motors al Senato USA: "Senator Hendrickson. Well now, I am interested to know whether if a situation did arise where you had to make a decision which was extremely adverse to the interests of your stock and General Motors Corp. or any of these other companies, or extremely adverse to the company, in the interests of the United States Government, could you make that decision?

Mr. Wilson. Yes, sir; I could. I cannot conceive of one because for years I thought what was good for our country was good for General Motors, and vice versa. The difference did not exist. Our company is too big. It goes with the welfare of the country. Our contribution to the Nation is quite considerable. (p. 26)"
(fonte).

Citata a segmenti, la frase spesso ha avuto interpretazioni "partigiane", ma adesso, e soprattutto dopo la crisi del 2008, viviamo nei tempi del "too big to fail".

Che non è solo il titolo di libri e film più o meno complottisti, ma anche una serie di regole legate al riconoscimento della realtà dei fatti: siamo troppo interconnessi e con tempi di reazione troppo rapidi, per restar legati a concetti di "stato" e "giurisdizione" che andavan bene ai tempi del "Cuius Regio Eius Religio".

Ovvero: i tempi in cui l'Italia era ancora abbastanza caotica da poter esser scuola di diplomatici "sul terreno" da prestare ad altri.

So che tentare di spiegare il "too big to fail" e cosa ne derivi come conseguenza logica è una battaglia persa in partenza, dato che le teorie complottiste (spesso anche più grossolane del falso della polizia zarista rimasto famoso, leggetene la discussione di Sergio Romano) sono più semplici da vendere.

Provate a leggervi la spiegazione del "too big to fail" nell'articolo "How to cope with the too-big-to-fail problem?".

Il punto per me cruciale, e che andrebbe considerato in qualunque valutazione "sistemica" (che sia per una città, un paese, una joint-venture tra imprese, una società partecipata pubblico-privato o altro, poco importa), è questo:
"being too big is a major part of the problem, but it is not all just about size. Excessive interconnectedness of financial institutions, reliance on a single or few firms for the provision of key financial infrastructure, and complexity of operations and cross-border activity are all part of what I will refer to as "too big to fail". In combination, all these characteristics of a financial institution raise the impact of its failure on the financial system".

Togliete la parola "financial", e rileggete:
"being too big is a major part of the problem, but it is not all just about size. Excessive interconnectedness of institutions, reliance on a single or few firms for the provision of key infrastructure, and complexity of operations and cross-border activity are all part of what I will refer to as "too big to fail". In combination, all these characteristics of a(n) institution raise the impact of its failure on the system".

Ovvero:
"l'esser troppo grandi è la parte più rilevante del problema, ma non è solo questione di dimensioni. L'eccessivo intreccio di relazioni tra le istituzioni, dipendenza da una singola o poche aziende per la fornitura di infrastrutture chiave, e complessità delle attività operative e di quelle transnazionali sono tutti elementi di ciò a cui farò riferimento con il concetto di "troppo grande per fallire". In combinazione, tutte queste caratteristiche di una istituzione incrementano l'impatto di un suo fallimento sul sistema".

Una buona diagnosi di qualunque situazione organizzativa nella nostra società: ma i miei colleghi con studi in fisica o ingegneria non avranno problema a riconoscere la descrizione come un qualcosa per loro familiare.

In qualunque struttura vi sono gradi di libertà e punti di debolezza strutturale.

Questi ultimi spesso nel mondo del lavoro sono chiamati "colli di bottiglia", mentre i primi sono elementi che possono diventare elementi negoziali, nelle strutture più "politiche" (non importa di quali dimensioni, o che siano pubbliche, private, multinazionali).

In Italia abbiamo l'abitudine di frammentare ma senza ristrutturare: ovvero, trattiamo tutto come se fosse una torta da dividere a fettine, dimenticando alcuni piccoli elementi che chiunque si sia occupato di definire o modificare strutture sociali od organizzative riconosce.

O, al contrario, di aggregare strutture disomogenee in una struttura di maggior dimensioni ma, di nuovo, spesso senza lavorare sul cambiamento culturale necessario (al massimo, si ritoccano processi o sistemi), tanto che spesso le nostre "privatizzazioni" che accorpano strutture più piccole generano costi di struttura, non i risparmi attesi (anche se si riesce a trasferire a terzi la differenza di costo rendendo obbligatori agli utenti processi che prima erano svolti da chi erogava il servizio, p.es. nella raccolta rifiuti).

Tralasciando i dettagli, veniamo ad esempi.

Credo che chiunque troverebbe ridicolo p.es. una panetteria con due persone dietro al bancone in cui ai clienti sia richiesto, all'ingresso, di compilare un modulo in cui indichino la quantità per tipologia del pane richiesto ed il peso relativo, prima di poter essere serviti.

Eppure, se la struttura deve produrre prodotti fisici su ordinazione e non solo vendita, che siano due o duemila i dipendenti, un minimo di strutturazione delle informazioni, anche per tracciabilità tra ordine ed esecuzione (oltre che per consentire la pianificazione della produzione), diventa necessaria.

Ora, se voi avete una struttura da ventimila persone, "spacchettarla" in cento strutture da 200 richiede alcuni passi.

Può anche darsi che si riescano a mantenere i processi "operativi"- semplicemente, i passaggi aumenteranno, ed aumenterà il costo negoziale nel caso in cui si verifichino problemi.

Ma, soprattutto, dovrete cambiare la testa delle persone, abituate a strutture piramidali e processi che prevedono passaggi verticali più che orizzontali.

Lo stesso vale se si vuole passare da una serie di microstrutture ad una macrostruttura: il livello di flessibilità possibile in una microstruttura avrebbe impatti a cascata su una struttura con una "sequenza" di attività più strutturata.

Ho lavorato in strutture di diversi tipi in diversi paesi, e, francamente, in parte impatta la cultura organizzativa specifica (l'azienda), ma in gran parte conta la cultura strutturale (il "sistema paese").

Quando si tratta di collaborare tra strutture di dimensioni diverse e che siano espressione di culture "strutturalmente" diverse, in generale almeno una delle parti deve esser dotata di quanto indicato nel titolo: empatia.

Tralasciando discussioni teoriche e polemiche su come viene spesso distorto il concetto, in questo contesto per "empatia" intendo la modesta capacità di ascoltare prima di parlare evitando idee preconcette, e poi di conseguenza la capacità di farsi un'idea sulla motivazione della controparte.

Niente a che vedere con vari elementi di manipolazione, semplicemente osservare, capire, e quindi negoziare.

Tenendo presente quest'ultima frase, vorrei far un preambolo "culturale-organizzativo". Un "pistolotto", secondo la vulgata locale.

Torino è una città particolare: troppo grande per sentirsi una tranquilla provincia, troppo piccola per accettare che, sei vuoi esser una metropoli, devi aprirti.

Il motto che venne scelto per le olimpiadi 2006 ("passion lives here") era una superficiale doratura.

Pensieri di piccolo cabotaggio a breve gittata non son passione.

Son affarucci per chi è convinto che, tanto, i clienti ritorneranno perché non esiste scelta migliore.

Ben lontano da quello che divenne famoso decenni fa, l'idea di avere una fettina più piccola di una torta più grande, in modo da motivare la collaborazione (in tempi più recenti, il "co-marketing" e la "co-competizione") di terze parti.

Quando miliardari startupper americani insistono di esser sempre al giorno zero, non è per far i furbetti del quartierino oggi e gli alleati domani pur di mantenere lo status quo ante.

Il punto è l'esatto contrario: il miglioramento continuo esige che si sia sempre pronti a rimettere ed a rimettersi in discussione.

Sulla prima declinazione qui son tutti d'accordo, come ricordava pochi mesi fa con una punta di malizia "Il Sole 24 Ore" parlando di questa città sempre pronta a giudicare.

Sul secondo... purtroppo assisto quotidianamente all'ossessione di chi cerca di vivere con il corpo nel XXI secolo e con la testa ben prima, continuando con caparbietà che fa quasi tenerezza di convincere della bontà delle proprie desuete "convenzioni" a chi è figlio di altra cultura.

Nulla di male, se il territorio fosse la Macondo di "Cent'anni di solitudine", come scrissi tempo addietro.

Ma se si vuole esser internazionali, anzi, multinazionali, polo di attrazione, ecc, non bastano segni visibili per dirsi "aperti".

Ed è una lamentela che sento da chi non è del territorio da fine anni Ottanta, quando ebbi le prime occasioni di lavorare a Torino con "forestieri".

Un'ottima idea di ieri può esser di ostacolo domani.

Ma è necessario un certo coraggio per far i tre passi necessari:
1. capire che non ha più senso, anche se si è all'origine dell'idea;
2. coinvolgere chi serve (anche "nemici") per definire il punto di arrivo ed il percorso;
3. soprattutto, in una società in cui tutto è basato sulle relazioni, trovare ove possibile modalità per compensare i perdenti, e, ove non possibile, accettare che il cambiamento non necessariamente converte tutti i vincenti del passato in alleati del futuro.

Non è un problema solo di Torino, ma strutturale dell'Italia: se, altrove, "spacchettando" una azienda da ventimila persone in cento aziende da 200 persone comunque si stabilisce una rete di regole e relazioni, qui purtroppo, non avendo decisioni che siano mai "finali" ma sempre "relazionali", si passa potenzialmente dall'avere una testa che decide (con pochi altri), ad almeno duecento che vogliono poter ridiscutere tutto in qualunque momento.

Spesso, non si raggiunge la massa critica non perché si sia intellettualmente incapaci di "scalare" (come si dice oggi), ma perché crescere di dimensioni vuol dire passare dall'azienda-famiglia all'azienda in cui ci sono rapporti di lavoro.

In passato, diversi colleghi italiani mi hanno descritto come una fatica passare dai 50 ai 100-200, e chi aveva già 100-200 a passare a 500 dipendenti.

Spesso scrivo che qui in Italia abbiamo sovente schemi mentali da XIX secolo.

Ma, francamente, a livello locale andrei ancor più indietro- a quando, ben più tardi che in altre regioni, venne abolita quella che nei fatti era "servitù della gleba".

Curioso che un recente film girato a Torino raccontasse una storia che, invece, manteneva quegli istituti ben oltre l'inizio del XX secolo.

Il film non era francamente niente di che, e quindi non dico il titolo (indicato su Facebook.com/robertolofaro a suo tempo, se siete curiosi), ma mentre sono in Italia cerco di vedere anche film locali.

Di nuovo, il problema-macondo: se vuoi tenerti il territorio, fallo pure- ma poi non chieder ad altri di finanziartelo.

Viviamo in un mondo globalizzato, ed è ben difficile coglierne i benefici che pure le risorse umane, intellettuali, architettoniche del territorio rendono a portata di mano, se si resta un grosso paesone dentro.

Il provincialismo italiano spesso si manifesta nella nostra ridicola abitudine di fare quelle che chiamo da anni (ma non credo di esser il solo) "Frankenlaws".

Nel settore pubblico come pure in quello privato per sentirci meno provinciali e più "moderni" adottiamo senza adattare schemi organizzativi e normativi nati altrove.

Schemi che presuppongono una cultura formale ed informale dell'amministrare che per noi è come se venisse da Marte (non che i casi recenti di "marziani" in politica in Italia si siano poi confermati tali, a successiva verifica).

E la litigiosità strutturale degli italiani in qualunque tipo di affare, formale ed informale, è ben rappresentata dalle statistiche giudiziarie.

Ora, finché restiamo nel paesone tra paesani, funziona.

Ma se diamo visibilità, come sul dossier olimpiadi, alla nostra prassi di non considerare nessun accordo "finale", difficilmente chi non vi sia costretto sarà incentivato a raggiungere accordi sul territorio.

Ovviamente, qualunque accordo prevede che vi possano essere cause esogene che ne rimettano in discussione i termini.

Ma "ho cambiato idea" o "penso di poterne ricavare di più" non costituiscono causa né sufficiente né necessaria per una variazione di accordi in essere.

Servono elementi oggettivi. E condivisi.

Perché qualunque quantità di dati non è in grado di superare un deficit di credibilità.

Come dicono in inglese "lies, damned lies, statistics".

Non sarà una novità per molti, ma anche fuori dell'Italia, ad un certo punto, è questione di relazione.

Meglio, questione di coerenza tra espressione ed azione.

Di continuità e prevedibilità.

Recentemente, dopo la gestione del dossier olimpico, trasformato in una trincea "noi contro tutti", a legger i quotidiani un nuovo dossier è stato preso in considerazione da Regione e Comune: ovviamente, il futuro post-Marchionne di FCA e società del gruppo.

Francamente, le dichiarazioni che ho letto finora sui quotidiani locali mi ricordano molto la logica adottata per il dossier olimpico.

Senza entrar in polemica (eccessiva), suggerirei un paio di libri di Kotler, vecchi ma utili: "High Visibility" e "Marketing Places".

Entrambi, in termini diversi, sull'attrazione investimenti e sulla gestione del rapporto di attrattività sul lungo termine.

Se proprio non vi va di legger libri noiosi di marketing, un paio di romanzi che anche io conto di rileggere (le mie copie sono in archivio da qualche parte, quindi ho chiesto l'aiuto delle Biblioteche Civiche) sono "A small city in Germany" e "The Bonfire of Vanities".

Torino non è né Bonn durante la guerra fredda né New York a fine anni Ottanta.

Ma entrambi i libri coprono aspetti dello schema "caratteriale" locale che è difficile far digerire.

Non si tratta di buttar milionate per convincere, si tratta di fare sistema ed empatia a livello sistemico (inutile definire "cabine di regia", se poi non tutti gli attori di interesse sul territorio sono coinvolti).

Tra l'altro, come ripeto ogni tanto a chi incontro a Torino, visto che son decenni che Torino si sta "riconsiderando", sono stati fatti investimenti su diverse linee di potenziale sviluppo, talvolta senza francamente un disegno prospettico e con modelli di destinazione diversi.

A parte la mancanza di risorse, non è un davvero problema, visto che purtroppo in Italia investiamo per fare, poi ignoriamo il ciclo di vita degli investimenti.

Il punto non è aver università che attraggano studenti, infrastrutture rinnovate, una bella città con buon cibo e molti eventi.

Il punto è che tutti questi elementi siano sostenibili dall'attività operativa che si svolge sul territorio o che porta risorse, non drenando risorse dalle Fondazioni bancarie o da fonti pubbliche.

Una filiera della conoscenza non richiede solo studenti stranieri (con sussidi per venire a Torino), ma anche un "ecosistema" che incentivi magari a creare qui futuro impiego qualificato, e che attiri anche docenti stranieri a passare parte della loro carriera a Torino, ovvero: fare rete.

Altrimenti, creiamo un pensatoio (non un "think tank", ma un "thinking pit") che, con il passar del tempo, si allontana sempre di più dalla realtà.

So di esser noioso: ma la filiera della conoscenza a cui mi riferisco è più da umanesimo che da rinascimento: più mobility e smart city che richiedono competenze non solo tecniche, che soltanto automotive- dato che mobilità, energia, comunicazioni, sostenibilità saranno probabilmente la linfa vitale del futuro prossimo venturo (eviterò di ripetere quanto scritto nell'articolo "The timeframe of structural change").

Cosa copre? Saperi "tecnici" (intesi non solo da politecnico o scientifici, per me "tecnici" sono anche gli economisti e gli avvocati) e "non tecnici" (creazione di idee per ridefinire il concetto di sostenibilità).

Di nuovo, come già quando ero a Bruxelles condividevo con contatti stranieri, non è questione di pensare all'Italia soltanto come sistema "chiuso", autoreferenziale e con un mercato di 60 e rotti milioni di abitanti.

La struttura dell'economia italiana, basata sulle mini- e micro-imprese, la rende strutturalmente capace di rimodulare gli assetti non solo produttivi, ma anche della catena di produzione del valore e logistica.

Costantemente e quando richiesto.

Basta solo smetter di considerare tutto come una rete di relazioni.

Se l'azienda A lavora di solito con l'azienda B e l'azienda C, può darsi che in alcuni casi abbia più senso che lavori con l'azienda E- senza tirarsi il traino delle altre due.

E Torino, piuttosto che cercare di ri-avere la FIAT anni Sessanta del XX secolo, dovrebbe pensare a cosa converrebbe ad entrambe le parti negli anni Trenta-Cinquanta di questo secolo (cfr. Wikipedia per i dati).

In altri paesi si sta già considerando un dato di fondo: se si va verso una ancor più spinta urbanizzazione, le città saranno da gestire a livello sistemico.

E nel settore mobilità e smart city, quello che oggi chiamiamo automotive (o, comunque, trasporti), nel passare da motori a combustione a motori elettrici o a celle (p.es. il "sito promozionale" in Italiano di Toyota), richiederà cambiamenti radicali nell'industria.

La concentrazione di competenze nel settore (e quelli collaterali) realizzate nell'ultimo secolo a Torino consentirebbe di discutere con cognizione di causa di temi quali:
.
In altri paesi si parla di centinaia di migliaia di posti di lavoro da riconsiderare, soltanto nei settori direttamente coinvolti e p.es. nell'industria dei componenti, senza considerare la produzione e distribuzione dei carburanti, o chi produce accessori, o servizi indiretti.

E' difficile convincere una città che per oltre un secolo si è considerata "il cuore industriale dell'Italia" che in realtà può continuare ad esserlo riducendo la dimensione direttamente produttiva ma rilanciando quella basata sulle competenze e sulla ricerca, cercando di esser un polo di scambio, produzione di avviamento, ecc che trascenda il solo ex-campione locale, ma, in fondo, una tale evoluzione non potrebbe esser di interesse comune a tutte le parti coinvolte?

E se si virtualizzano le unità produttive che poi saranno comunque automatizzate, che fare con tutti gli spazi che saranno resi disponibili?

Non è meglio cercar di fare qualcosa di simile a quello che, per caso o per scelta, avvenne con la piazza finanziaria di Londra?

Se crei un centro di talenti operativi, crei anche un polo di attrazione di talenti.

E se crei un polo di attrazione di talenti, anche chi li utilizza potrebbe avere interesse ad esser sul tuo territorio.

Se si va verso un futuro fatto non di veicoli ma di sistemi, e se già adesso alcune case dichiarano che oltre il 70% del valore di un veicolo non è prodotto o non ricade sulla casa automobilistica, la capacità di pensare ed agire in termini sistemici ma con la disponibilità di diversi sottoinsiemi di competenze "verticali" (motori, veicoli, ecc) può generare maggior valore.

Comunque, come scritto questa mattina sull'account Instagram "professionale" in risposta ad un complimento, ma con maggior dettaglio: lavorando in più settori e paesi, spesso mi succedeva che mi venisse chiesto cosa pensavo, "trasversalmente", e sino al 2003 tali scambi erano o davanti una birra od un calice od un caffé, o via email.

Non mi stupisco quindi di reazioni non necessariamente positive da parte di chi è più focalizzato su una sola attività ed un solo settore, magari anche in un solo paese o una sola città.

Ma, negli anni Novanta come oggi, ritengo indispensabile guardare alle risorse che si hanno senza preconcetti, e sempre senza preconcetti guardare al potenziale interesse che tali risorse possano avere per altri, nell'ottica di poterne derivare ritorni positivi per tutte le parti coinvolte (altrimenti, difficile che partecipino).

A far previsioni o discutere idee si sbaglia: chi fa proiezioni sempre al 95%, come diceva un collega americano di una società, diventa famoso per esser quello che è bravo nel "forecasting the past" (prevedere il passato).

L'importante è l'esercizio della previsione basato su informazioni, perché ti consente poi, al variare delle condizioni, di capire quali elementi richiedano variazioni.

I ritorni positivi non devono essere valutati solo in termini direttamente economici: qual'è il valore aggiunto di una migliore qualità della vita e di una maggiore disponibilità di tempo libero?

Concordo con una intervista una volta a Philippe Daverio, se non ricordo male, in cui disse che non è il valore economico diretto della cultura che impatta (una chimera su cui in loco han costruito un'industria), ma ciò che produce sulle menti e le energie che rende disponibili per osservare la realtà (e produrre prodotti e servizi) in modo diverso.

Noi italiani forse ci arriveremo- ma avete notato come altre comunità, p.es. cinesi, invece di imitare e basta si siano impiantate da noi ed inizino a "produrre italiano" con un mix tra la loro cultura e la nostra?

Le considerazioni di cui sopra, come già accennato nell'articolo "The Timeframe of structural change", saranno ampliate su BusinessFitnessMagazine.com nel numero che uscirà a fine mese; per il momento, potete rileggere allo stesso indirizzo i numeri pubblicati dal 2003 al 2005, aggiornati nel 2013 e pubblicati anche come libro (sempre sul cambiamento culturale ed organizzativo).

Spero di vedere empatia prima nella ritenzione degli investimenti già acquisiti, e poi nell'attrazione di nuovi investimenti, non sterili richiami ad un idealismo da XIX secolo.

Come già fatto con TorinoWireless, non è impossibile creare strutture di co-decisione e co-sviluppo, il solo punto è abituarsi a perder l'ossessione del controllo.

Contributo finale: se volete, leggetevi un rapporto del 2016 di Torino Strategica, "Torino startup. Una proposta per potenziale l'ecosistema locale", che conteneva alcune opzioni proposte.

Che io condivida il documento non vuol dire che lo supporti in parte od in toto- solo, mi piacerebbe che le idee girassero di più, prima che siano prese decisioni.

Anche se le idee sono in disaccordo: d'altro canto, se prender decisioni significasse solo apporre un timbro su una sola opzione, forse i decisori potrebbero esser i primi ad esser automatizzati.

Ed una volta prese le decisioni (che siano tra più opzioni o l'unica realistica, poco importa)?

Che i decisori "ci mettano la faccia".

Al prossimo articolo, sperando di veder novità, e non costanti ripetizioni di errori passati e recenti.