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Published on 2016-04-18 22:00:00 | words: 2642
Un breve cenno ai fatti della settimana scorsa- iniziata, politicamente, con l'annuncio martedì mattina della scomparsa di Casaleggio (padre).
(Incidentally: a related post, but in English, went online yesterday on keep the course- but watch for reasons to change it :) #Italy #reforms #Roosevelt https://www.frype.com/robertolofaro/blog/?p=14187869)
E seguita da una ridda di annunci in M5S che penso abbiano fatto vacillare più di uno dei miei contatti che si erano, o dall'inizio, o recentemente, avvicinati a M5S (tralascio le cause in corso sulle espulsioni perché rasentano la farsa- sia le espulsioni che le cause).
Francamente, l'involuzione organizzativa è degna di uno dei partiti minori della Prima Repubblica: dare un partito in eredità potrà sembrar normale nella Corea del Nord, ma nell'Unione Europea non mi sembra sia la prassi (neanche Le Pen c'è riuscito- in quel caso, è diventato un "palace coup")...
Ma queste sono elezioni amministrative- e, come dimostrato da Pizzarotti a Parma, l'arroccamento del nucleo fondatore di M5S su se stesso non necessariamente riduce la capacità d'azione (indipendente) a livello locale degli amministratori "di area" (le candidate Sindaco a Torino e Roma incluse).
Avvicinandoci alle elezioni, complice anche la primavera, a Torino stanno intensificandosi interessanti appuntamenti orientati a presentare opzioni (ed ad auto-candidarsi) per l'amministrazione che verrà.
Senza citare Lucio Dalla "l'anno che verrà"- anche perché sarebbe più indicato far riferimento a "Futura" https://www.youtube.com/watch?v=cJ1tYVAZ8kQ
In particolar modo l'ultimo verso, visti i tempi: "aspettiamo senza avere paura, domani".
Ma vorrei riprendere il discorso avviato nel post precedente, "Amministrative 2016-05 Investiture e sviluppo economico"
Vi erano altri eventi che valeva la pena di seguire la scorsa settimana, ma purtroppo il tempo è tiranno, ed ho dovuto concentrarmi sul venerdì pomeriggio- il concetto di "riposo del fine settimana" è relativo.
I due eventi che ho scelto venerdì mi aspettavo fossero rilassanti- ed in entrambi i casi ho avuto delle piacevoli sorprese: forse poco politically correct, ma sia un rappresentante (torinese) del Ministero dello Sviluppo Economico, sia un membro dell'Amministrazione di Torino in carica hanno parlato con una schiettezza inusuale, inusuale non solo a Torino, ma in generale in Italia.
Prima di condividere i commenti, una breve sintesi delle idee.
Se c'è una cosa che non manca in Italia, sono i "think tank", gruppi di studio, convegni di ricerca, studi rapporti e relazioni con cadenza più o meno annuale.
Spesso sono letture interessanti, ma talvolta la sensazione che si ottiene dalla "burocrazia della ricerca socio-economica" è simile ad un ponderoso studio sul perché le fette biscottate finiscano sempre per cadere sul pavimento dalla parte imburrata: Monsieur de La Palice (https://en.wikipedia.org/wiki/Lapalissade) ne sarebbe stato fiero.
In Italia, più modestamente, negli anni Ottanta erano chiamate "catalanate".
Se pensate che sia eccessivamente cinico... dovreste aver sentito quello che ha detto un rappresentante del Governo.
Qualcuno potrebbe dire che, essendo la presona di Torino ma a Roma, i toni fossero un po' caricati, alla "sassolini di Cossiga", per intenderci.
L'intento del convegno era nobile: presentare i risultati di uno studio multidisciplinare su cosa fare per migliorare l'attrattività di Torino per le start-up, elencando anche una serie di iniziative da attuare.
Ma, francamente, la sensazione è stata la stessa che provai durante un convegno una decina d'anni fa sullo sviluppo del turismo, a cui parteciparono a Torino i rappresentanti di governi di altri paesi dell'Unione Europea- ed i commenti erano ancor meno gentili di quelli del rappresentante del Governo.
E' vero, vincere un premio non fa mai male- ma in Italia spendiamo troppo tempo ad auto-celebrarci, mentre il resto del pianeta si muove.
Le tre critiche principali che ho sentito venerdì?
- i volumi (numero di start-up) discussi sono irrisori per una città con la tradizione manifatturiera (e le dimensioni) di Torino
- le iniziative proposte dovrebbero essere la "baseline", il minimo indispensabile, che dovrebbe esser attuato subito, per far quello che altrove fanno da anni, non un "obiettivo"
- ultimo ma non meno importante: si parla di mentoring, si parla di business coach- ma sono gli imprenditori che devono esser coinvolti per identificare ed aiutare ad affermarsi nuovi talenti imprenditoriali, non accademici ed associazioni di categoria.
Mi ha sorpreso sentire, un decennio dopo averlo detto e ripetuto a start-up sul territorio, sentir declamare come se fosse una scoperta recente che "riciclare" ex-dirigenti di grandi società per coprire il ruolo di mentore in nuove micro-società non ha prodotto i risultati attesi.
E spero che alcune delle proposte, una volta rese operative, non servano a creare l'ennesima burocrazia di monitoraggio: insieme ai think tank, strutture di cui in Italia abbiamo una presenza sotto ogni campanile.
Tutto negativo? No- l'elemento positivo principale è stata la genesi dello studio presentato: è vero, mancavano alcuni elementi della "società civile", ma la coesione mostrata nell'accettare la necessità di unire le forze è un buon inizio.
Peccato che, in chiusura, vi sia stato l'accenno ad un qualcosa che ha semplicemente aggiunto ghiaccio al gelo seguito all'intervento del rappresentante del Governo.
Cosa fanno altri paesi per ridurre il rischio di "fuga dei cervelli"? Creano incentivi ed un ecosistema che rendano attraente restare (o tornare).
Cosa è stato presentato? Visto che gli studenti che venivano mandati all'estero a far esperienza in imprese negli Stati Uniti "tendevano a restare altrove", il programma è stato reso ancora più selettivo, per garantire di mandare il meglio del meglio (ovvero: meritocrazia pura, senza legami a connessioni- ancora inusuale, in Italia).
Mi ricordava quasi il racconto ad una cena a Londra con il fondatore del Mensa, di come, nel Regno Unito post-Seconda Guerra Mondiale, l'idea di un "club" in cui si entrasse solo per aver passato un test e non grazie all'appartenenza ad un "team" fosse un'idea quasi rivoluzionaria.
Beh, con qualche decennio di ritardo, ma ci siamo- ho pensato, quasi incredulo.
Ma poi, ed ecco il ghiaccio: per evitare la fuga dei cervelli, l'accordo con il Consolato è che i visti prevedano che le persone coinvolte non possano mai prendere la "carta verde", e debbano tornare in Italia, ove, grazie ai contatti acquisiti negli Stati Uniti, possano esser impiegate come "canali" per sviluppare attività con le loro controparti.
Spero ovviamente che si sia trattato di un malinteso- ma dalle reazioni di altri non mi sembra di esser stato l'unico a percepire un cenno di continuità con un passato non più sostenibile.
Mi è tornato in mente un dialogo con un compagno di studi non Italiano a Londra: io pensavo che una qualche forma di trasferimento del costo di formazione fosse necessaria (considerate come gran par del costo di formazione universitaria sia in realtà coperto dai contribuenti- ai miei tempi, solo il 5% dei giovani si laureava), per chi scegliesse di trasferirsi all'estero generando benefici in paesi che non hanno contribuito ai costi sostenuti.
Lui mi fece un commento da una prospettiva diversa: non è colpa dello studente universitario se il suo paese non è in grado di creare le opportunità per beneficiare del capitale umano che ha finanziato/generato/sostenuto.
Negli ultimi anni, grazie anche alle Fondazioni bancarie, Torino ha investito risorse rilevanti nello sviluppo dell'"infrastruttura per il capitale umano" (università, campus, ecc), come pure nella creazione di strutture collegate in grado di supportare nella fase di avviamento le start-up: ma i numeri dicono che siamo quasi ad un livello "fisiologico", come dissero alcuni rappresentanti di governi esteri durante il convegno di un decennio fa a cui ho accennato prima.
Ovvero: se hai un sistema universitario con decine di migliaia di studenti in ambito tecnico-scientifico, è naturale aspettarsi che almeno l'1-2% crei un'attività.
Durante il convegno, è stato però condiviso il vero problema: se vogliono crescere, le poche start-up che passano le forche caudine del nostro sistema di promozione dell'imprenditorialità devono andare all'estero.
E non parliamo di investimenti da centinaia di milioni di euro- bastan pochi milioni per esser già "fuori scala", anche perché non c'è integrazione tra i diversi attori privati e pubblici/accademici, integrazione che dovrebbe esser a monte (ovvero: prima che le start-up partano), e non solo a valle (ovvero: raccogliendo i frutti di quello che i fondatori di una start-up hanno testardamente realizzato).
"scalabilità"- un brutto neologismo, ma che rende bene il vizio di base del nostro "sistema Italia": siamo troppo frammentati, e non riusciamo a far "massa critica".
Comunque, proprio gli investimenti realizzati negli ultimi anni in infrastrutture per il supporto allo sviluppo del capitale umano, per inserire Torino nel circuito turistico internazionale, e per creare anche infrastrutture fisiche da mettere a disposizione di piccoli e grandi potenziali investitori e creatori di occupazione (in parte riutilizzando il "lascito ereditario" della precedente fase di industrializzazione di Torino) differenziano Torino da altre città che, invece, hanno utilizzato le risorse disponibili durante una fase di declino solo per cercare di arrestare il declino.
Al tempo stesso, nella seconda conferenza di venerdì invece ho avuto modo di vedere un secondo politico che, sollecitato dal moderatore-giornalista a fare qualcosa più che un semplice saluto, è sceso direttamente nell'arena dialettica- parlando di cosa significhi gestire l'urbanizzazione in una città come Torino, in cui la città metropolitana per ora è più un concetto che una realtà normata.
All'estensione tentacolare della città si è unita una contrazione delle risorse disponibili.
Se già questo sarebbe stato difficile da gestire in una situazione "normale", provate a pensare cosa significa mentre si cerca di far evolvere il modello economico di sviluppo della città dalla "company town" ad un "laboratorio continuo" per l'innovazione.
L'innovazione non è un risultato, è un processo: e ciò comporta mantenere un tessuto industriale vitale, rendere attraente e vivibile la città per attirare investitori e studenti, e generare abbastanza risorse per sostenere i costi fissi di mantenimento della città-impresa (a Torino gli enti pubblici locali sono nei fatti diventati il datore di lavoro che, individualmente, assorbe il maggior numero di occupati a tempo indeterminato).
Non ho ancora avuto modo di leggere il rapporto presentato in questa seconda conferenza, e quindi commentare sui commenti avrebbe scarso senso- condividerò in un secondo momento una "mindmap" sia per il documento presentato nella prima conferenza, sia per il rapporto Urban.
E veniamo all'ultimo punto, ovviamente legato al referendum.
Personalmente, ero indeciso tra "no" ed astensione quando noi italiani eravamo gli unici a discutere di una moratoria.
Dopo che sia la Croazia sia la Francia hanno nei fatti iniziato una moratoria ed accennato ad una gestione condivisa del problema a livello europeo, mi sarei aspettato che, così come prima del referendum il PM Renzi aveva detto che non possiamo esser i soli a far la moratoria, dopo i loro annunci anche noi si andasse verso una moratoria sulla concessione di nuove autorizzazioni, ed un phase-out di quelle esistenti, da discutere con i nostri partner europei (o quantomeno con i paesi rivieraschi già membri EU o associati).
Ovviamente in Europa ormai sono abituati alla nostra prassi: invochiamo la solidarietà europea salendo sul pulpito, ma quando arriva ci "differenziamo".
Come se i nostri partner ormai non fossero abituati a "vedere" il nostro bluff, per usare una metafora adeguata, ma la speranza di coerenza è sempre l'ultima a morire (come nel vaso di Pandora), non un segno di ingenuità.
Concordo su un punto con il PM Renzi: vista l'implosione del centro-destra e le curiose scelte dei M5S di queste ultime settimane, cercare di convertire un referendum già "difficile" in un referendum pro o contro Renzi è stato un modo per render fastidiosa la scelta di votare.
Un po' come quando Marco Pannella diceva "se almeno X% dei votanti... abbiamo moralmente vinto"- in cui ovviamente "ignorava" la quota fisiologica di astensionismo, ed assorbiva tra i suoi anche schede bianche e nulle.
Non è che nella gestione delle infrastrutture critiche negli ultimi anni si sia data grandissima prova di continuità operativa- investiamo, ma non manuteniamo, e l'incidente di oggi a Genova non è certo rassicurante.
Nel merito del referendum, io resto dell'idea che, al di là del problema di sicurezza, l'elemento interessante di questa ed altre questioni è che rappresentano casi in cui l'unica soluzione è una unione di intenti almeno a livello di Unione Europea (difficile invocare qui la "mediterraneità" di Le Corbusier ecc- Algeri, Tripoli, Tunisi, Il Cairo adesso hanno altro a cui pensare).
Lo so che diversi dei proponenti del referendum facevano riferimento anche alle inusuali condizioni dei contratti di concessione- ma sono simili alle condizioni a cui sono abituati altri paesi da ormai un secolo: è solo che "occhio non vede, cuore non duole".
Come sempre, il cambiamento (non solo nell'Unione Europea) è più semplice da introdurre nelle situazioni di crisi, dato che queste ultime consentono il superamento di ostacoli che, in una situazione stabile, diventano vere e proprie "trincee di resistenza al cambiamento".
Che sia più semplice da introdurre non vuol dire che sia meno difficile da gestire: si tratta sempre di ottimizzare l'utilizzo delle risorse e mantenere un livello di attenzione ("pressione" forse è il termine più corretto) che in altri momenti pochi tollererebbero.
Sarebbe interessante estendere il concetto di legge di iniziativa popolare (in un certo senso prevista anche dalle recenti modifiche ai Trattati, p.es. quello di Lisbona https://en.wikipedia.org/wiki/Treaty_of_Lisbon) ed introdurre quello di "referendum all'italiana" (abrogativo), con gli stessi vincoli (ovvero: una legge di iniziativa popolare deve esser rappresentativa sia del territorio sia della popolazione).
Sinora, le rettifiche ai Trattati hanno prodotto solo estensioni delle prerogative di una o più istituzioni, ma con limitato coinvolgimento dei cittadini europei nella "rimodulazione dei poteri".
Le crisi recenti, p.es. quella ancora in corso sulla (co)gestione dell'immigrazione, sono fondalmentalmente diverse da quelle alle quali eravamo stati abituati negli ultimi decenni.
Se quelle erano crisi "di crescita", essenzialmente auto-generate, queste sono crisi "identitarie", e solo indirettamente generate dall'interno dell'Unione (p.es. la crisi di Libia, che inglese di potrebbe definire "a mess made by Europeans and for Europeans").
Non saranno un paio di convegni, seminari, workshops, o qualche cena di Stato a risolvere le crisi attuali: non è questione di allocazione di risorse (tre miliardi qui, tre miliardi lì), ma di coesione strutturale interna dell'Unione prima di poter salire in cattedra e catechizzare altri Stati su come migliorare la propria coesione ed incentivare lo sviluppo.
Per ora, lo spettacolo che offriamo a chi in teoria si aspetta una nostra iniziativa di coesione e sviluppo per l'area mediterranea è più simile alla battaglia in cucina tra Tognazzi e Gassman ne "i nuovi mostri"- ma vista dall'interno della cucina...